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Patto di prova per lavoratori assunti o trasferiti all’estero: è nullo se di durata maggiore rispetto a quella prevista dal contratto collettivo.

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Patto di prova per lavoratori assunti o trasferiti all’estero: è nullo se di durata maggiore rispetto a quella prevista dal contratto collettivo.

Con Ordinanza n. 9789 del 26 maggio 2020 la Suprema Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, ha affermato che in caso di assunzione o trasferimento all’estero di lavoratori  è nulla la clausola contrattuale che preveda una durata del patto di  maggiore rispetto a quella massima prevista dal contratto collettivo applicabile al rapporto lavorativo.

IL FATTO- Un lavoratore ricorreva innanzi al Tribunale competente per l’accertamento della nullità del patto di prova della durata di sei mesi apposto al contratto di lavoro prima della partenza dello stesso per la Colombia, in quanto più lungo della durata prevista dal CCNL di riferimento. Il Tribunale rigettava la domanda del dipendente. La Corte di appello, confermando la sentenza di primo grado considerava che nel contratto oggetto dell’autorizzazione ministeriale la maggiore durata del periodo di prova appariva giustificabile in relazione alle maggiori difficoltà di inserimento del dipendente in un contesto lavorativo di un Paese diverso e distante dall’Italia e che quindi la clausola derogatoria introdotta fosse sorretta da motivazioni plausibili e non fosse di per sé peggiorativa rispetto le previsioni del C.C.N.L.”. Il lavoratore ricorreva quindi per Cassazione per la riforma della sentenza.

LA DECISIONE DELLA CORTE- La Suprema Corte ha ricordato che: Ai fini dell’assunzione o del trasferimento all’estero dei lavoratori italiani, i datori di lavoro devono presentare richiesta di autorizzazione al Ministero del lavoro e della previdenza sociale (…)”, che accerta che “b) il trattamento economico-normativo offerto sia complessivamente non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi di lavoro vigenti in Italia per la categoria di appartenenza del lavoratore e sia distintamente prevista l’entità delle prestazioni in denaro o in natura connesse con lo svolgimento all’estero del rapporto di lavoro“. Anche a seguito dell’abrogazione dell’autorizzazione ministeriale permane la medesima prescrizione circa le condizioni dei lavoratori da impiegare o trasferire (art. 2, Legge n. 398/1987).

Nel merito il Collegio ha ritenuto che l’assunzione autorizzata dal Ministero del Lavoro [indicava] che la fattispecie [fosse] assoggettata all’applicabilità della L. 3 ottobre 1987, n. 398 (…) di talché non [era] consentito all’interprete derogare alla prescrizione di legge (…). Questa [aveva] chiaramente statuito che il “trattamento economico normativo offerto” dovesse essere “complessivamente non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi di lavoro vigenti in Italia per la categoria di appartenenza del lavoratore“.

Inoltre, la Corte ha precisato che:

  • l’istituto (patto di prova) è di carattere normativo e non economico e “non presenta connotati tali da non potere essere applicato allo stesso modo sia in Italia che nel Paese estero”;
  • “la clausola del contratto individuale di lavoro con cui sia previsto un periodo di prova di durata maggiore di quella massima prevista dal contratto collettivo applicabile al rapporto (…) può ritenersi legittima solo nel caso in cui la particolare complessità delle mansioni di cui sia convenuto l’affidamento al lavoratore renda necessario, ai fini di un valido esperimento e nell’interesse di entrambe le parti, un periodo più lungo di quello ritenuto congruo dalle parti collettive per la normalità dei casi; il relativo onere probatorio ricade sul datore di lavoro, a cui la maggiore durata del periodo di prova attribuisce una più ampia facoltà di licenziamento per mancato superamento della prova“.

Sulla scorta di tanto, e ritenendo che nella specie tale prova non fosse stata fornita, la Corte ha accolto il ricorso del lavoratore.

Il testo completo della decisione: Cassazione civile, Sez. Lavoro, Ordinanza n. 9789 del 2020

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