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Nullo il licenziamento del lavoratore assente per malattia in caso di mancato superamento del periodo di comporto. L’azienda ha l’obbligo di reintegrare.

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Nullo il licenziamento del lavoratore assente per malattia in caso di mancato superamento del periodo di comporto. L’azienda ha l’obbligo di reintegrare.

Con la Sentenza n. 19661 del 22 luglio 2019, la Cassazione ha avuto modo di ribadire l’orientamento secondo cui il licenziamento intimato prima della scadenza del periodo di comporto è affetto di nullità specificando altresì che le conseguenze di tale nullità vanno tratte dalla disciplina generale contenuta in seno al codice civile.indipendentemente dal numero di dipendenti occupati dall’azienda.

IL FATTO – Un lavoratore dipendente di un’azienda privata era stato licenziato per supposto superamento del periodo di comporto. Nell’ambito dei giudizi di primo e secondo grado era però risultato pacifico che, al momento dell’irrogazione del licenziamento, le assenze del lavoratore per malattia non erano state in numero tale da comportare il superamento del periodo di comporto. Il Tribunale, in primo grado, accertata l’illegittimità del licenziamento aveva condannato l’azienda alla reintegrazione del lavoratore ed al pagamento delle retribuzioni maturate dal momento del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione. Diversamente la Corte d’Appello, in secondo grado, pur ribadendo l’illegittimità del licenziamento, in applicazione della cosiddetta “tutela obbligatoria” di cui alla Legge n. 604/1966, aveva condannato il datore di lavoro alla riassunzione (cosa assai diversa dalla reintegrazione) del lavoratore o, in alternativa, al pagamento di un’indennità quantificata in misura pari a quattro mensilità di retribuzione.

LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE – La Suprema Corte, richiamando un proprio risalente orientamento interpretativo di recente ribadito dalle Sezioni Unite con la Sentenza n. 12568 del 2018, ha chiarito come il superamento del periodo di comporto costituisca una fattispecie autonoma di recesso dal rapporto di lavoro distinta da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o di giustificato motivo. Il mero protrarsi di assenze oltre un determinato limite stabilito dalla contrattazione collettiva – o, in difetto, dagli usi o secondo equità – infatti, di per sé non costituisce inadempimento alcuno (trattandosi di assenze pur sempre giustificate). Ne deriva che laddove il licenziamento sia stato intimato prima ancora che il periodo di comporto sia effettivamente scaduto è nullo per violazione dell’art. 2110 cod. civ., da considerarsi norma imperativa e quindi inderogabile dalla contratto collettivo o da quello individuale. Dottrina e Giurisprudenza definiscono infatti l’imperatività delle norme in rapporto all’esigenza di salvaguardare valori morali o sociali o valori propri d’un dato ordinamento giuridico. Il valore della tutela della salute è sicuramente prioritario all’interno dell’ordinamento, atteso che l’art. 32 Cost. lo definisce come «fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività». La salute  non può quindi essere adeguatamente protetta se non all’interno di tempi sicuri entro i quali il lavoratore, ammalatosi o infortunatosi, possa avvalersi delle opportune terapie senza il timore di perdere, nelle more, il proprio posto di lavoro. Quanto agli effetti discendenti da tale nullità, la Cassazione ha statuito che devono essere applicate le regole generali contenute in seno al codice civile secondo cui l’atto nullo è improduttivo di effetti non potendosi ricorrere, in via analogica, all’applicazione della disciplina contenuta nella Legge n. 604/1966 per le aziende che occupano fino a 15 dipendenti. Ne deriva che al licenziamento nullo dovrà sempre conseguire la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro nonché, laddove quest’ultimo abbia messo in mora il datore di lavoro offrendo le proprie energie lavorative, la corresponsione delle retribuzioni maturate dopo il licenziamento e fino all’effettiva reintegrazione.

Il testo completo della decisione: Cassazione Civile, Sez. Lavoro, Sentenza n. 19661 del 2019

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