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Cassazione: il lavoro domestico reso da persona estranea alla famiglia in cambio di vitto e alloggio costituisce lavoro subordinato

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Cassazione: il lavoro domestico reso da persona estranea alla famiglia in cambio di vitto e alloggio costituisce lavoro subordinato

REPUBBLCA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

DA

*****CONTRO

*****

elettivamente domiciliati in ***, presso lo studio dell’Avv. xxx, che li rappresenta e difende, unitamente all’Avv.xxx, come da procura a margine del controricorso

Controricorrenti
per la cassazione delle sentenza n. 210/06 della Corte di appello di Roma dell’11.01.2006/2.03.2006 nella causa iscritta al n. 925 R.G. Dell’anno 2003.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23.11.2010 dal Cons. Dott. xxx;
Udito l’avv. xxx per delega Avv. xxx, per la ricorrente:
sentiti il P.M., in persona del Sost. Prfoc. Gen. Dott. Renato Finocchi Ghersi, che ha concluso per rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso, ritualmente depositato, ***** esponeva:

– di avere lavorato come domestica ammessa alla convivenza familiare e alle dipendenze *****;

– di avere ricevuto la retribuzione mensile di £. 400.000,aumentate a £. 700.000 dal 9.01.1997, oltre al vitto e all’alloggio;

-di avere atteso a tutte le faccende domestiche secondo le direttive e le disposizioni degli anzidetti coniugi;

– di non avere goduto per tutta la durata del rapporto di lavoro del riposo settimanale;

– di essere stata malmenata dalla figlia dei datori di lavoro e scacciata di casa il 29 agosto 1998, riportatndo tra l’altro varie contusioni con inabilità al lavoro per 20 giorni.
Ciò premesso, conveniva in giudizio ***** per sentir accertare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, con condanna degli stessi al pagamento della complessiva somma di £. 78.967.710, oltre accessori, per varie voci retributive dettagliatamente esposte.
I convenuti costituendosi contestavano l’esistenza dell’asserito rapporto di lavoro e chiedevano quindi il rigetto del ricorso.
All’esito dell’istruzione il Tribunale di Roma con sentenza del 25.01.2002 rigettava le domande della ricorrente.
Tale decisione, appellata dalla ***** è stata confermata dalla Corte di appello di Roma con sentenza n. 210 del 2006, che, sulla base dei testi escussi e delle ammissioni contenute nella domanda di concessione del permesso di soggiorno, ha ribadito l’inesistenza di un rapporto di lavoro subordinato, essendo emerso che tra le parti era sorto un rapporto esclusivamente in chiave umanitaria, per aver offerto gli anzidetti coniugi all’appellante vitto ed alloggio in cambio di un aiuto alla stregua degli altri componenti il nucleo familiare.
Contro la sentenza di appello la ***** propone ricorso per cassazione articolato su quattro motivi, illustrati con memeoria ex art. 378 CPC.

***** resistono con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2697, con riferimento alla legge n. 339 del 1958 sul rapporto di lavoro domestico (art. 360 n. 3 e n. 5 CPC).
La ***** osserva che decisione del giudice di appello non è corretta, in quanto, a fronte del dato di fatto dell’avvenuto svolgimento di prestazioni di lavoro da parte della lavoratrice di “aiuto in casa” a titolo oneroso, sarebbe stato onere degli appellanti fornire la prova che lo scambio tra collaborazione domestica e il vitto, l’alloggio e il compenso erogato trovava il proprio titolo in ragioni di ospitalità “in chiave umanitaria”.
Con il secondo motivo la ricorrente, nel denunciare violazione della legge n. 304 del 18.05.1973 sul collocamento alla pari e della legge 339 del 1958 sul rapporto di lavoro domestico (art. 360 n. 3 CPC), sostiene che le prestazioni rese da uno straniero a favore di una famiglia ospitante, consistenti in una partecipazione ai normali lavoro casalinghi, si presumono di lavoro domestico, a meno che non sia fornita la prova della ricorrenza dei presupposti di lavoro c.d. alla pari.
Con il terzo motivo la ricorrente, nel dedurre vizio di motivazione circa un punto decisivo della controversia, contestata la decisione di appello per avere escluso il carattere oneroso del rapporto in relazione alla ritenuta modestia del contributo economico offerto pari a £ 700.000 negli ultimi tempi (360 n. 5 C.P.C.)

Gli esposti motivi, che per la loro intima connessione possono essere esaminati congiuntamente, sono fondati.
Il giudice di appello, come già detto, ha ritenuto che il rapporto in questione fosse sorto esclusivamente per ragioni umanitarie, ma nel procedere a tale valutazione non ha dato il dovuto rilievo alla causa del negozio intercorso tra le parti in relazione allo scambio tra le prestazioni tipiche del lavoro domestico e compenso, oltre al vitto ed alloggio.
Le valutazioni espresse da tale giudice sono peraltro motivate con riferimento alle risultanze testimoniali contraddittorie ed imprecise circa le modalità dello svolgimento dell’attività da parte della ***** presso l’abitazione degli appellanti, con conseguente esclusione di un rapporto di lavoro subordinato.
Le riferite argomentazioni non sono ispirate a corretti criteri giuridici giacchè nel caso di specie non è in contestazione il fatto dell’espletamento di prestazioni oggettivamente configurabili come tipiche del lavoro domestico, sicchè la sussistenza del rivendicato rapporto di lavoro subordinato avrebbe potuto essere esclusa, qualora fossero emersi i presupposti per la configurabilità di un rapporto c.d. alla pari, quali risultano delineati dalla richiamata legge 304 del 1973, il che non è dato cogliere nella decisione impugnata.

La sentenza impugnata contrasta con il principio di diritto secondo cui lo scambio di prestazioni di lavoro domestico rese da una straniera estranea alla famiglia, contro vitto e alloggio e retribuzione pecuniaria sia pure modesta dà luogo a rapporto di lavoro subordinato, ove non risultino tutti gli elementi del rapporto cosiddetto alla pari, richiesti dalla legge 18 maggio 1973 n. 304.
La sentenza deve perciò essere cassata per errore di diritto e, non occorrendo nuovi accertamenti di fatto sul punto (nella motivazione si legge che “il contributo economico offerto solo negli ultimi tempi era salito a lire 70.000 mensili), deve ai sensi dell’art. 384 primo comma cod. proc. Civ., decidersi nel merito affermando la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato.
La causa deve per contro essere rinviata ad altro giudice di merito, che si designa nella Corte di Appello di Roma in diversa composizione, in ordine al calcolo delle retreibuzioni pretese dall’attuale ricorrente.

2. Con il quarto motivo la ricorrente nel lamentare violazione degli artt. 115, 420 e 437 CPC, nonchè illogica motivazione circa un punto decisivo della controversia con riferimento all’art. 437 CPC, sostiene che il giudice di appello, pur sollecitato ad esercitare i poteri officiosi con riguardo alle prove richieste erroneamente non ha disposto l’integrazione istruttoria e ha rigettato la domanda per non essere stata raggiunta la prova.
Le doglianze contenute delle prove, possono ritenersi assorbite in conseguenza e l’effetto dell’accoglimento dei primi tre motivi.
Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P Q M

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.
Così deciso in Roma addì 23 novembre 2010

Depositato in Cancelleria
il 21 dicembre 2010

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