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Danni da demansionamento: guida pratica al ricorso

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Danni da demansionamento: guida pratica al ricorso

Nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato (sia nel caso in cui il datore sia un soggetto privato, sia nel caso in cui sia una pubblica amministrazione), assumono fondamentale rilievo le mansioni assegnate al lavoratore che indicano l’insieme dei compiti e delle specifiche attività che quest’ultimo ha l’obbligo (ma anche il diritto) di eseguire. Insomma le mansioni costituiscono l’oggetto specifico della prestazione lavorativa e vengono solitamente specificate nel contratto stipulato tra le parti.

Nei rapporti alle dipendenze di datori di lavoro privati, viene infatti riconosciuto al lavoratore un vero e proprio “diritto alla mansione” che trova la propria fonte legale nell’art. 2103 del codice civile (come novellato dall’art. 13 dello Statuto dei Lavoratori e dal Jobs Act): il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito, ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”.

Con riferimento, invece, ai rapporti lavorativi alle dipendenze di pubbliche amministrazioni, è l’art. 52 del D.Lgs. 165/2001 (Testo Unico sul Pubblico Impiego) a prevedere che: il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto delle procedure selettive di cui all’art. 35, comma 1, lettera a)”.

Ebbene, precisato il diritto del lavoratore a prestare l’attività lavorativa per cui è stato assunto nonché corrispondente alla propria “qualifica” professionale, occorre considerare la necessità di contemperare quest’ultimo con la discrezionalità garantita dall’ordinamento al datore di lavoro in relazione all’organizzazione della propria attività produttiva e, dunque, con la possibilità, riconosciuta a quest’ultimo, di destinare i propri dipendenti ad una determinata attività (il c.d. jus variandi).

Sorge quindi il problema di definire i “confini” dello jus variandi. Se infatti non desta alcuna particolare preoccupazione il mutamento delle mansioni “verso l’alto” (e, cioè, l’attribuzione di mansioni superiori…alle quali dovrà pur sempre conseguire una retribuzione adeguata), diverso è il caso del mutamento “verso il basso” e, cioè, l’attribuzione di mansioni inferiori poiché ciò può comportare la  violazione del diritto al lavoro, da intendersi come diritto a svolgere un’attività lavorativa che risponda ad un’esigenza imprescindibile della personalità del lavoratore.

In tal caso si parla di demansionamento, da intendersi quale condotta del datore di lavoro consistente nell’adibizione del lavoratore a mansioni ricomprese in un livello di inquadramento inferiore rispetto a quello pattuito all’interno del contratto individuale di lavoro o a quello corrispondente alle mansioni da ultimo svolte. Lo svolgimento di mansioni inferiori (o il mancato svolgimento di qualsiasi mansione) determina l’impoverimento della capacità professionale del lavoratoreNon solo: una tale condotta potrebbe anche arrecare un danno alla persona (il cosiddetto danno biologico), essendo idonea generare uno stato di stress  e, dunque, un danno alla salute, oltre che potendosi palesare quale azione rientrante nell’ambito di una più complessa strategia di mobbing.


IL DEMANSIONAMENTO NEI RAPPORTI DI LAVORO PRIVATO

Il datore di lavoro, nell’ambito dei suoi poteri direttivi, può adibire il lavoratore a mansioni inferiori solo nelle ipotesi tassativamente previste dalla legge, ovvero dall’art. 2103 c.c., nella formulazione recentemente modificata dall’art. 3 D.Lgs. n. 81/2015 (c.d. Jobs Act) e nelle altre ipotesi previste dalla legislazione speciale.

L’art. 2103 c.c. legittima espressamente il demansionamento del lavoratore in tre ipotesi:

  • nel caso in cui la modifica di assetti organizzativi aziendali incida sulla posizione del lavoratore (art. 2103 co. 2 c.c.);
  • nel caso di previsione da parte del contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro (art. 2103 co. 4, c.c.);
  • nel caso di previsione da parte di un accordo individuale di modifica delle mansioni stipulato nelle c.d. sedi protette, che risponda all’interesse del lavoratore: alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle proprie condizioni di vita (art. 2103 co. 6 c.c.).

Accanto ai casi di demansionamento legittimo previste dall’art. 2103 c.c., ulteriori ipotesi sono disciplinate dalle leggi speciali.
Si tratta, in generale, di casi in cui l’assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori appare necessaria al fine di soddisfare un interesse qualificato dello stesso lavoratore.
Il demansionamento è ammesso ad esempio:

  • nel caso di licenziamento collettivo, quando l’adibizione del lavoratore a mansioni inferiori è individuata nell’accordo sindacale come mezzo per il riassorbimento degli esuberi (art. 4, co. 11, L. 223/1991);
  • nel caso di lavoratrici madri, durante il periodo di gestazione e fino a sette mesi dopo il parto, se il tipo di attività o le condizioni ambientali precedenti sono pregiudizievoli alla salute (art. 7, L. 151/2001);
  • in caso di sopravvenuta inabilità allo svolgimento delle mansioni di assegnazione per infortunio o malattia (artt. 1 co. 7 e 4, co. 4 L. 68/1999; art. 42 D.Lgs. 81/2008);
  • nel caso in cui sia necessario sottrarre il lavoratore all’esposizione ad un agente fisico, chimico o biologico (art. 229, co. 5, D.Lgs. 81/2008).

All’infuori di tali ipotesi il demansionamento è quindi da ritenersi giuridicamente illegittimo.

 


IL DEMANSIONAMENTO NEI RAPPORTI DI LAVORO ALLE DIPENDENZE DI PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

Come anticipato, la disciplina vigente delle mansioni contenuta all’art. 52 del D.Lgs. 165/2001, c.d. “Testo Unico sul pubblico impiego”, modificato dalla c.d. “riforma Brunetta”, sancisce il diritto del dipendente pubblico di essere adibito alle mansioni per cui è stato assunto, ovvero “alle mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto delle procedure selettive di cui all’articolo 35, comma 1, lettera a”.

In altri termini, per rispettare le esigenze di duttilità del servizio e di buon andamento della pubblica amministrazione, viene assegnato rilievo solo al criterio dell’equivalenza formale con riferimento all’area di inquadramento, senza riferimento ai contratti collettivi e senza che il Giudice possa sindacare l’equivalenza in concreto della mansione.

Dunque, il datore di lavoro potrà legittimamente modificare le mansioni del lavoratore, a patto che assegni mansioni previste come equivalenti a quelle “originarie” nell’ambito dell’area di inquadramento, indipendentemente dalla professionalità specifica che il lavoratore possa aver acquisito in una precedente fase del rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A..

Insomma, nell’impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, laddove le mansioni attribuite ad un dipendente pubblico siano modificate, il giudice deve avere riguardo solo al criterio oggettivo, ovvero quello della rispondenza delle nuove mansioni a quelle del livello contrattuale di appartenenza. La differenza rispetto al rapporto di lavoro alle dipendenze di privati – come affermato fino ad ora dalla prevalente giurisprudenza – riguarda quindi l’ambito dello jus variandi che, nel lavoro privato, incontra il limite della equivalenza professionale da verificare sia sotto il profilo oggettivo (e cioè in relazione alla inclusione nella stessa area professionale e salariale delle mansioni iniziali e di quelle di destinazione), sia sotto il profilo soggettivo, che implica l’affinità professionale delle mansioni, nel senso che le nuove devono armonizzarsi con le capacità professionali acquisite dall’interessato durante l’intero rapporto lavorativo.

Ove si realizzi, invece, un sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa oppure una non rispondenza delle mansioni assegnate a quelle proprie del livello formale di inquadramento si configura un demansionamento vietato anche nell’ambito del pubblico impiego.


 

IL DANNO DA DEMANSIONAMENTO

Naturalmente, nel caso travalicamento dei limiti legali posti allo jus variandi, vi è la possibilità, per i lavoratori demansionati, di agire in via giudiziaria (davanti al Giudice del Lavoro) al fine di richiedere il relativo risarcimento del danno (cosiddetto  “da demansionamento” o da “dequalificazione professionale”).

L’illegittima assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori rappresenta, infatti, una circostanza potenzialmente capace di produrre diverse conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale che non patrimoniale.

Da un lato, il danno professionale da demansionamento ha natura patrimoniale e può consistere sia nel pregiudizio derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore che nella mancata acquisizione di una maggiore capacità, senza dimenticare il pregiudizio subito per perdita di chance, cioè in relazione alle ulteriori possibilità di guadagno. Quanto a tale profilo, gli elementi che solitamente il Giudice considera sono l’intensità della dequalificazione, la sua durata, la professionalità, l’esperienza acquisita ed i compiti residui affidati al lavoratore nel periodo di demansionamento.

Dall’altro lato, i danni non patrimoniali riguardano l’identità professionale sul luogo di lavoro, l’immagine o la vita di relazione o comunque la lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 1 e 2 della Costituzione e, più in generale, ogni lesione di beni immateriali che hanno a che fare con la sfera personale del lavoratore, come il diritto alla salute.

Il diritto al risarcimento del danno (patrimoniale o non patrimoniale) non è configurabile automaticamente ad ogni “episodio” di condotta illegittima posta in essere dal datore di lavoro.

Ed infatti, il lavoratore che intenda essere risarcito deve provare in giudizio

  • l’esistenza del demansionamento e l’illegittimità giuridica dello stesso;
  • l’esistenza di un danno patito (patrimoniale e/o non patrimoniale);
  • il cosiddetto nesso di causalità fra il demansionamento illegittimo e l’insorgenza del danno.

Studio Legale Leotta (con sede a Roma, Napoli e Reggio Calabria)

 

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