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La retribuzione è dovuta anche se il datore di lavoro rifiuta la prestazione lavorativa

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La retribuzione è dovuta anche se il datore di lavoro rifiuta la prestazione lavorativa

Con Ordinanza n. 7977 la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, ha chiarito che al dipendente spetta la retribuzione tanto se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, sia se il datore di lavoro vi abbia illegittimamente rifiutato.

IL FATTO- Una nota società di telefonia si opponeva ad un decreto ingiuntivo avente ad oggetto una somma in favore della dipendente (…) per retribuzione del mese di febbraio 2014, sul presupposto della permanenza del rapporto di lavoro tra le parti anche dopo il trasferimento, impugnato dalla predetta, del ramo di azienda dalla società datrice“. Il Tribunale di prime cure rigettava l’opposizione e anche in secondo grado la Corte rigettava l’appello della Società.

LA DECISIONE DELLA CORTE- La Suprema Corte di Cassazione ha chiarito, in via preliminare, che:soltanto un legittimo trasferimento d’azienda comporta la continuità di un rapporto di lavoro che resta unico ed immutato, nei suoi elementi oggettivi, esclusivamente nella misura in cui ricorrano i presupposti di cui all’art. 2112 c.c. che, in deroga all’art. 1406 c.c., consente la sostituzione del contraente senza il consenso del ceduto. Ed è evidente che l’unicità del rapporto venga meno, qualora, come appunto nel caso di specie, il trasferimento sia dichiarato invalido, stante l’instaurazione di un diverso e nuovo rapporto di lavoro con il soggetto (già, e non più, cessionario) alle cui dipendenze il lavoratore “continui” di fatto a lavorare”.

Ancora, la Corte ha precisato che:

  • “per insegnamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità l’unicità del rapporto presuppone la legittimità della vicenda traslativa regolata dall’art. 2112 c.c.: sicché, accertatane l’invalidità, il rapporto con il destinatario della cessione è instaurato in via di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il cedente (sebbene quiescente per l’illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale)“;
  • “il trasferimento del medesimo rapporto si determina solo quando si perfeziona una fattispecie traslativa conforme al modello legale; diversamente, nel caso di invalidità della cessione (per mancanza dei requisiti richiesti dall’art. 2112 c.c.) e di inconfigurabilità di una cessione negoziale (per mancanza del consenso della parte ceduta quale elemento costitutivo della cessione), quel rapporto di lavoro non si  trasferisce e resta nella titolarità dell’originario cedente”;
  • “pure a fronte di una duplicità di rapporti (uno, de iure, ripristinato nei confronti dell’originario datore di lavoro, tenuto alla corresponsione delle retribuzioni maturate dalla costituzione in mora del lavoratore; l’altro, di fatto, nei confronti del soggetto, già cessionario, effettivo utilizzatore), la prestazione lavorativa solo apparentemente resta unica: giacché, accanto ad una prestazione materialmente resa in favore del soggetto con il quale il lavoratore, illegittimamente trasferito con la cessione di ramo d’azienda, abbia instaurato un rapporto di lavoro di fatto, ve n’è un’altra giuridicamente resa, non meno rilevante sul piano del diritto, in favore dell’originario datore, con il quale il rapporto di lavoro è stato de iure (anche se non de facto, per rifiuto ingiustificato del predetto) ripristinato”.

Pertanto, il Collegio ha concluso nel senso che “al dipendente spetta la retribuzione tanto se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, sia se il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei suoi confronti (…), perché, una volta offerta la prestazione lavorativa al datore di lavoro giudizialmente dichiarato tale, il rifiuto di questi rende giuridicamente equiparabile la messa a disposizione delle energie lavorative del dipendente alla utilizzazione effettiva, con la conseguenza che il datore di lavoro ha l’obbligo di pagare la controprestazione retributiva”.

Sulla base di tali principi, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del datore di lavoro.

Il testo completo della decisione: Cassazione civile, Sez. Lavoro, Ordinanza n. 7977 del 2020

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