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Ministero del Lavoro: emanata circolare applicativa sulla Riforma Fornero

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Ministero del Lavoro: emanata circolare applicativa sulla Riforma Fornero

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali – Circolare 18 luglio 2012, n.18

Oggetto: L. 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. Riforma lavoro) – tipologie contrattuali e altre disposizioni – prime indicazioni operative.

 Ministero del Lavoro – Circolare n. 18 del 2012

Nella Gazzetta ufficiale n. 153 del 3 luglio u.s. è stata pubblicata la L. 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. Riforma lavoro), in vigore da oggi, 18 luglio 2012.
Tra le numerose disposizioni contenute nel provvedimento assumono particolare rilievo le modifiche alla disciplina di alcune tipologie contrattuali, modifiche finalizzate esplicitamente a “contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità” e, allo stesso tempo, a contrastare un uso non del tutto coerente con le finalità di alcuni istituti.
Altre disposizioni intervengono a modificare la disciplina in materia di collocamento al lavoro dei disabili ed altre ancora ad introdurre meccanismi di contrasto al c.d. fenomeno delle dimissioni in bianco.
In relazione ad alcune di tali disposizioni si forniscono, con la presente circolare, delle primissime indicazioni di carattere operativo al personale ispettivo, riservandosi sin d’ora di fornire, rispetto a ciascun istituto, chiarimenti più esaustivi con separati provvedimenti.

Contratto a tempo determinato: c.d. causalone e limite massimo dei 36 mesi
La L. n. 92/2012 è intervenuta su diversi aspetti della disciplina del contratto a tempo determinato, modificando in più parti il D.Lgs. n. 368/2001.
Contratto a termine “acausale”
In questa sede si ritiene opportuno fornire chiarimenti in ordine alle modifiche apportate dalla Riforma con riferimento anzitutto alle ipotesi in cui non è necessario indicare le ragioni di caratteri: “tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo” (c.d. causalone) ai fini della valida stipulazione del contratto.
Secondo l’art. 1 del D.Lgs. n. 368/2001, in via generale, è consentita l’apposizione di un termine lla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, rganizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro, identica condizione è richiesta, ai sensi dell’art. 20, comma 4, del D.Lgs. n. 276/2003, in relazione alla somministrazione a tempo determinato.
Ai sensi dell’art. 1, comma 9 lett. b), della L. n. 92/2012 – che inserisce il comma 1 bis nel corpo dell’art. 1 del D.Lgs. n. 368/2001 – il c.d. causalone non è tuttavia richiesto “nell’ipotesi del primo rapporto a tempo determinato, di durata non superiore a dodici mesi, concluso fra un datore di lavoro o utilizzatore e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nel caso di prima missione di un lavoratore nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato ai sensi del comma 4 dell’articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276”.
La formulazione si riferisce al “primo rapporto a tempo determinato” tra lavoratore e datore di lavoro/utilizzatore, per lo svolgimento “di qualunque tipo di mansione”. Proprio il riferimento al “rapporto” e alla irrilevanza della mansione cui è adibito il lavoratore porta a ritenere che la deroga al causalone possa trovare applicazione una e una sola volta tra due medesimi soggetti stipulanti il contratto a tempo determinato. In altre parole, il causalone sarebbe quindi richiesto nel caso in cui il lavoratore venga assunto a tempo determinato o inviato in missione presso un datore di lavoro/utilizzatore con cui ha intrattenuto già un primo rapporto lavorativo di natura subordinata.
L’introduzione del primo contratto a tempo determinato “acausale” è infatti anche finalizzata ad una miglior verifica delle attitudini e capacità professionali del lavoratore in relazione all’inserimento nello specifico contesto lavorativo; pertanto non appare coerente con la ratio normativa estendere il regime semplificato in relazione a rapporti in qualche modo già “sperimentati”. Ciò a maggior ragione vale per la stipula di contratti a tempo determinato con lo stesso datore di lavoro con cui si è intrattenuto un precedente rapporto a tempo indeterminato.
Inoltre, il primo rapporto a tempo determinato, in relazione al quale non è richiesta l’indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, non può avere una durata superiore a 12 mesi. Se ad esempio il primo rapporto ha una durata di soli 3 mesi, in caso di successiva assunzione a tempo determinato, occorrerà indicare le ragioni che lo giustificano. In tal senso, pertanto, il periodo di 12 mesi non costituisce una “franchigia” – o comunque un periodo in qualche modo frazionabile – nell’ambito della quale si è sempre esonerati dalla individuazione del causalone. Peraltro si ricorda che il primo rapporto a termine “acausale” non è in nessun caso prorogabile, nemmeno qualora lo stesso abbia avuto una durata inferiore ai 12 mesi e sino a tale durata massima. Resta invece applicabile anche in tale ipotesi la previsione di cui all’art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 368/2001 (peraltro anch’essa modificata dalla L. n. 92/2012) secondo la quale, solo al superamento di un periodo di 30 o 50 giorni dalla scadenza del contratto, lo stesso “si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini”.
Ancora l’art. 1, comma 9 lett. b), della riforma stabilisce che “i contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale possano prevedere, in via diretta a livello interconfederale o di categoria ovvero in via delegata ai livelli decentrati, che in luogo dell’ipotesi di cui al precedente periodo il requisito di cui al comma 1 non sia richiesto nei casi in cui l’assunzione a tempo determinato o la missione nell’ambito del contratto di somministrazione a tempo determinato avvenga nell’ambito di un processo organizzativo determinato dalle ragioni di cui all’articolo 5, comma 3, nel limite complessivo del 6 per cento del totale dei lavoratori occupati nell’ambito dell’unità produttiva”. Qui il Legislatore introduce la possibilità, da parte della contrattazione collettiva, di stabilire una disciplina alternativa (“in luogo dell’ipotesi di cui al precedente periodo”) a quella individuata nella
prima parte della formulazione normativa. Va anzitutto rilevato che la contrattazione collettiva abilitata ad intervenire è quella posta in essere dalle parti sociali comparativamente più rappresentative, in secondo luogo si afferma che l’intervento può avvenire:
– in via diretta a livello interconfederale o di categoria;
– ovvero in via delegata ai livelli decentrati.
Questa seconda ipotesi sancisce esplicitamente una gerarchia tra i diversi livelli di contrattazione, dopo che l’art. 8 del D.L. n. 138/2011 (conv. da L. n. 148/2011) aveva invece previsto la possibilità, da parte della contrattazione collettiva anche aziendale, di introdurre discipline derogatorie alle previsioni di legge e dei contratti nazionali su determinate materie. Stando ai consueti criteri interpretativi si ritiene pertanto esclusa la possibilità, da parte della contrattazione collettiva decentrata, di introdurre una disciplina diversa da quella già prevista dal Legislatore se non espressamente delegata a livello interconfederale o di categoria.
In ogni caso la contrattazione collettiva potrà stabilire discipline alternative entro determinati limiti e, in particolare, potrà decidere che il contralto a tempo determinato non debba essere “sorretto” dal causalone nei casi in cui l’assunzione avvenga nell’ambito di un processo organizzativo determinato da:
– avvio di una nuova attività;
– lancio di un prodotto o di un servizio innovativo;
– implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico;
– fase supplementare di un significativo progetto di ricerca e sviluppo;
– rinnovo o proroga di una commessa consistente.
Inoltre l’assunzione non potrà riguardare più del 6% del totale dei lavoratori occupati nell’ambito dell’unità produttiva.
Periodo massimo di occupazione di 36 mesi
Occorre poi fornire alcuni chiarimenti in ordine alla previsione che impone un periodo massimo di occupazione a tempo determinato, presso lo stesso datore di lavoro e per lo svolgimento di mansioni equivalenti, di 36 mesi.
Va anzitutto ricordato che il comma 4 bis dell’art. 5 del D.Lgs. n. 368/2001 stabilisce che qualora, a causa di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti, il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lavoratore abbia complessivamente superato i 36 mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione tra un contratto e l’altro, il rapporto si considera a tempo indeterminato dalla scadenza del predetto termine.
La novità della riforma sta nel computo del periodo massimo di 36 mesi. È infatti previsto che, a tal fine, “si tiene altresì conto dei periodi di missione aventi ad oggetto mansioni equivalenti, svolti fra i medesimi soggetti, ai sensi del comma 1 bis dell’articolo 1 del presente decreto e del comma 4 dell’articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, inerente alla somministrazione di lavoro a tempo determinato”.
La norma vuole evidentemente evitare che, attraverso il ricorso alla somministrazione di lavoro, si possano aggirare i limiti all’impiego dello stesso lavoratore con mansioni equivalenti; in tal modo, pertanto, nel limite dei 36 mesi andranno computati anche i periodi di occupazione – sempre con mansioni equivalenti – legati ad una somministrazione a tempo determinato.
Ne consegue pertanto che i datori di lavoro dovranno tener conto, ai fini dell’indicato limite del 36 mesi, dei periodi di lavoro svolti in forza di contratti di somministrazione a tempo determinato stipulati a far data dal 18 luglio p.v. (data di entrata in vigore della Legge).
Si ricorda, in ogni caso, che il periodo massimo di 36 mesi, peraltro derogabile dalla contrattazione collettiva, rappresenta un limite alla stipulazione di contratti a tempo determinato e non al ricorso alla somministrazione di lavoro. Ne consegue che raggiunto tale limite il datore di lavoro potrà comunque ricorrere alla somministrazione a tempo determinato con lo stesso lavoratore anche successivamente al raggiungimento dei 36 mesi.

Apprendistato e clausole di stabilizzazione
La L. n. 92/2012 è intervenuta a modificare anche la disciplina dell’apprendistato, contenuta nel recente D.Lgs. n. 167/2011. Si tratta, da un lato, di interventi che interessano trasversalmente tutte le tipologie di apprendistato disciplinate dal Decreto (per la qualifica e per il diploma professionale, professionalizzante o contratto di mestiere, di alta formazione e ricerca) e, dall’altro, di interventi legati alla specifica disciplina del contratto di apprendistato professionalizzante o di mestiere.
Stabilizzazione
In questa sede si ritiene opportuno chiarire quanto previsto dalla riforma in ordine agli obblighi di stabilizzazione degli apprendisti ai fini della possibilità di effettuare nuove assunzioni in apprendistato e al coordinamento della nuova disposizione normativa con le previsioni contrattuali già vigenti.
L’art. 1, comma 16 lett. d), della L. n. 92/2012, ha dunque introdotto i commi 3 bis e 3 ter, all’art. 2 del D.Lgs. n. 167/2011. Qui si prevede una limitazione al ricorso all’apprendistato in assenza della stabilizzazione di una percentuale minima di apprendisti assunti negli anni precedenti. Più in particolare il Legislatore prevede, con esclusivo riferimento ai datori di lavoro che occupano alle loro dipendenze un numero di lavoratori almeno pari a 10, che l’assunzione di nuovi apprendisti sia subordinata “alla prosecuzione del rapporto di lavoro al termine del periodo di apprendistato, nei trentasei mesi prevedenti la nuova assunzione, di almeno il 50 per cento degli apprendisti dipendenti dallo stesso datore di lavoro” (per i primi 36 mesi dall’entrata in vigore della riforma tale percentuale è tuttavia fissata al 30%; la percentuale del 50% andrà pertanto verificata in relazione alle assunzioni effettuate a decorrere dal 18 luglio 2015 prendendo in considerazione le stabilizzazioni effettuate nei 36 mesi precedenti).
Ai fini del rispetto della disposizione occorrerà pertanto verificare quanti apprendisti abbiano concluso, nei 36 mesi precedenti la nuova assunzione (il periodo è pertanto da considerarsi “mobile”), il proprio percorso formativo e quanti di questi siano stati “stabilizzati” proseguendo il rapporto di lavoro a tempo indeterminato. A tal fine il Legislatore esclude tuttavia dal calcolo “i rapporti cessati per recesso durame il periodo di prova, per dimissioni o per licenziamento per giusta causa” e, qualora non sia rispettata la percentuale, consente pur sempre “l’assunzione di un ulteriore apprendista rispetto a quelli già confermati, ovvero di un apprendista in caso di totale mancata conferma degli apprendisti pregressi”. Da quanto sopra è possibile dunque ipotizzare quanto segue:
– datore di lavoro che ha stabilizzato, nei 36 mesi precedenti, 4 apprendisti su 8: nessuna limitazione ad assumere nuovi apprendisti se non quella prevista dall’art. 2, comma 3, del D.Lgs. n. 167/2011;
– datore di lavoro che ha stabilizzato, nei 36 mesi precedenti, 2 apprendisti su 8: possibilità di assumere 3 apprendisti (quelli già confermati più uno, fermo restando il rispetto dei limiti di cui all’art. 2, comma 3, del D.Lgs. n. 167/2011);
– datore di lavoro che non ha stabilizzato nei 36 mesi precedenti, nessun apprendista: possibilità di assumere un solo apprendista (fermo restando il rispetto dei limiti di cui all’art. 2, comma 3, del D.Lgs. n. 167/2011).
Qualora non si rispetti la clausola di stabilizzazione, gli apprendisti assunti in violazione dei limiti sono considerati lavoratori subordinati a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto.
La disposizione appena descritta va tuttavia coordinata con quella di analogo tenore, eventualmente introdotta dalla contrattazione collettiva ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. l), del D.Lgs. n. 167/2011. Tale disposizione assegna infatti alle parti sociali l’introduzione di “forme e modalità per la conferma in servizio (…), al termine del percorso formativo, al fine di ulteriori assunzioni in apprendistato, fermo restando quanto previsto dal comma 3 del presente articolo”.
Sul punto va anzitutto ribadito che la clausola di stabilizzazione “legale” – cioè quella prevista dall’art. 2, comma 3 bis, del D.Lgs. n. 167/2011 – trova applicazione con esclusivo riferimento ai datori di lavoro che occupano almeno 10 dipendenti (per quanto riguarda il computo dell’organico aziendale è possibile rinviare ai chiarimenti forniti dall’INPS con circ. n. 22/2007, pur se riferiti alla verifica del requisito occupazionale ai fini della individuazione del regime contributivo applicabile).
La clausola di stabilizzazione “contrattuale”, introdotta cioè ai sensi dell’art. 2, comma 1 lett. i), del D.Lgs. n. 167/2011, non subisce invece alcuna limitazione in funzione dell’organico aziendale.
Pertanto, nei casi in cui la prima non possa trovare applicazione, andrà rispettato esclusivamente il limite individuato dalla contrattazione collettiva, il cui superamento determinerà comunque la “trasformazione” del rapporto di apprendistato in un “normale” rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato; anche in questo caso non può infatti non evidenziarsi che, nonostante spetti alla contrattazione l’individuazione del limite alle assunzioni, trattasi pur sempre di un limite legale alla instaurazione del rapporto di apprendistato in quanto demandato dal Legislatore.
Qualora invece, fra le due disposizioni, vi sia coincidenza di ambito applicativo (datori di lavoro che occupano almeno 10 dipendenti), produce effetti sul plano del rapporto contrattuale esclusivamente la disposizione introdotta dalla L. n. 92/2012 e solo al superamento dei limiti ivi previsti potranno determinarsi le citate conseguenze sanzionatone (“trasformazione” del contratto). Ciò in ragione del fatto che la disposizione contenuta nella riforma introduce una disciplina specifica per le aziende che occupano almeno 10 dipendenti e pertanto “prevalente” rispetto a quella dell’art. 2, comma 1 lett. i), già in vigore.

Lavoro intermittente: ambito soggettive e periodo transitorio e obbligo di comunicazione
La L. n. 92/2012, con l’art. 1, comma 21, interviene anzitutto sul campo di applicazione del contratto di lavoro intermittente.
Nuovo campo di applicazione
A far data dal 18 luglio 2012 è infatti escluso il ricorso all’istituto “con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di 25 anni di età ovvero da lavoratori con più di 45 anni di età, anche pensionati”. Al suo posto il Legislatore ha invece introdotto un diverso requisito di carattere soggettivo. È infatti sempre ammessa la sottoscrizione di un contratto di lavoro intermittente “con soggetti con più di cinquantacinque anni di età e con soggetti con meno di ventiquattro anni di età, fermo restando in tale caso che le prestazioni contrattuali devono essere svolte entro il venticinquesimo anno di età”. In tale ultimo caso, dunque, si è inteso specificare che:
– ai fini della stipula del contratto il lavoratore non deve aver compiuto 24 anni;
– ai fini della effettiva prestazione di lavoro intermittente il lavoratore non deve aver compiuto 25 anni. In sostanza, pertanto, il ventiquattrenne, sino al giorno antecedente al compimento dei 25 anni, potrà essere chiamato a rendere la propria prestazione. Una eventuale violazione determinerà pertanto la “trasformazione” del rapporto in un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato.
Allo stesso tempo l’art. 1, comma 21 lett. c), della L. n. 92/2012 abroga l’art. 37 del D.Lgs. n. 276/2003. La disposizione consentiva di ricorrere, sempre e comunque, al lavoro intermittente “per prestazioni da rendersi il fine settimana, nonché nei periodi delle ferie estive o delle vacanze natalizie e pasquali” nonché in “ulteriori periodi predeterminati (…) dai contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale”.
Sulla base delle modifiche apportate dalla riforma, il lavoro intermittente è oggi quindi utilizzabile nelle seguenti ipotesi:
– ai sensi dell’art. 34, comma 1, del D.Lgs. n. 276/2003 (anch’esso parzialmente modificato con l’eliminazione del riferimento al citato art. 37): per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente “secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero per periodi predeterminali nell’arco della settimana, del mese o dell’anno”. In tal caso è dunque rimessa alla contrattazione collettiva l’individuazione sia delle “esigenze”, sia di “periodi predeterminati” che giustificano il ricorso all’istituto. Le parti sociali potranno pertanto reintrodurre una disposizione del tutto analoga a quanto già previsto dall’art. 37 del D.Lgs. n. 276/2003 ora abrogato;
– ai sensi dell’art. 34, comma 2, del D.Lgs. n. 276/2003 (sostituito dall’art. 1, comma 21 lett. a) n. 2, della l. n. 92/2012): con soggetti con più di 55 anni di età e con soggetti con meno di 24 anni di età, fermo restando in tale caso che le prestazioni contrattuali devono essere svolte entro il venticinquesimo anno di età;
– ai sensi dell’art. 40 del D.Lgs. n. 276/2003 (non modificato dalla L. n. 92/2032): con riferimento alle attività indicate – nelle more dell’intervento della contrattazione collettiva ai sensi del comma 1 dell’art. 34 – da questo Ministero. In tal caso occorre ricordare che il D.M. 23 ottobre 2004 ha indicato nelle occupazioni che richiedono un lavoro discontinuo – elencate nella tabella approvata con R.D. n. 2657/1923 – le ipotesi oggettive per le quali è possibile stipulare tale tipologia contrattuale; restano al riguardo ferme le interpretazioni già fornite da questo Ministero in ordine alla corretta applicazione del citato R.D. n. 2657/1923 in funzione della stipula del contratto in esame.
In relazione alla nuova disciplina dell’istituto il Legislatore ha poi introdotto una disciplina transitoria. In particolare, ai sensi dell’art. 1, comma 21, della L. n. 92/2012, “i contratti di lavoro intermittente già sottoscritti alla data di entrata in vigore della presente legge, che non siano compatibili con le disposizioni di cui al comma 21, cessano di produrre effetti decorsi dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge”.
In sostanza, a far data dal 18 luglio 2012 non è anzitutto possibile sottoscrivere contratti di lavoro intermittente secondo la previgente disciplina; ciò vale in particolare in relazione alla possibilità di stipula del contratto con soggetti dai 24 anni e fino ai 55.
Sin da subito, non è poi possibile imputare la chiamata del lavoratore intermittente alle causali di cui all’art. 37 del D.Lgs. n. 276/2003 (i c.d. periodi predeterminati), in quanto abrogato.
Inoltre trascorsi 12 mesi dall’entrata in vigore della riforma (pertanto entro il 18 luglio 2013), i contratti incompatibili con il nuovo campo di applicazione del lavoro intermittente cesseranno di produce effetti. Ne consegue che il contratto stipulato con l’ultraquarantacinquenne (che comunque non abbia superato i 55 anni di età) cesserà di produrre effetti e l’eventuale prestazione resa in violazione del divieto sarà considerala in “nero”.
Obblighi di comunicazione
Al fine di scongiurare possibili fenomeni distensivi nell’utilizzo dell’istituto, il Legislatore ha poi introdotto un nuovo obbligo comunicazionale connesso non alla sottoscrizione del contratto ma alla chiamata del lavoratore.
L’art. 1, comma 21 lett. b), della L. n. 92/2012 – integrando l’art. 35 del D.Lgs. n. 276/2003 con un comma 3 bis – ha pertanto stabilito che “prima dell’inizio della prestazione lavorativa o di un ciclo integrato di prestazioni di durata non superiore a trenta giorni, il datore di lavoro è tenuto a comunicarne la durata con modalità semplificate alla Direzione territoriale del lavoro competente par territorio, mediante sms, fax o posta elettronica”. Il Legislatore prevede al riguardo l’individuazione, tramite Decreto del Ministero del lavoro di concerto con il Ministero della pubblica amministrazione e semplificazione, sia delle “modalità applicative” che di “ulteriori modalità di comunicazione in funzione dello sviluppo delle tecnologie”.
Sul punto occorre pertanto evidenziare che, in assenza della individuazione delle modalità semplificate di comunicazione, l’adempimento in questione – riferito evidentemente anche ai rapporti instaurati prima della entrata in vigore della L. n. 92/2012 – potrà essere effettuato con gli strumenti attualmente operativi (posta elettronica, anche non certificata e fax ai recapiti delle Direzioni territoriali del lavoro reperibili sul sito di questo Ministero www.lavoro.gov.it; con specifico riferimento alla posta elettronica; si sottolinea l’esigenza di indirizzare le comunicazioni esclusivamente agli indirizzi di posta istituzionale) indicando, senza particolari formalità, i dati identificativi del lavoratore ed il giorno o i giorni – ad es. i giorni 15, 18 e 21 di agosto 2012 (per un totale, in questo caso, di 3 giorni di lavoro) oppure i giorni dal 15 al 22 di agosto 2012 (per un totale, in questo caso, di 8 giorni di lavoro) – in cui lo stesso è occupato nell’ambito di un periodo non superiore ai 30 giorni dalla comunicazione; non è evidentemente necessario comunicare anche l’orario in cui il lavoratore sarà occupato nell’ambito della singola giornata. Una sola comunicazione potrà inoltre indicare la chiamata anche di più lavoratori e potrà essere effettuata anche nello stesso giorno di inizio della prestazione purché antecedentemente all’effettivo impiego.
La comunicazione potrà essere modificata o annullata in qualunque momento attraverso l’invio di una successiva comunicazione, da effettuarsi tuttavia sempre prima dell’inizio della prestazione di lavoro. In assenza di modifica o annullamento della comunicazione già inoltrata è da ritenersi comunque effettuata la prestazione lavorativa per i giorni indicati, con le relative conseguenze di natura retributiva e contributiva.
Va precisato inoltre che, a fronte della comunicazione di una singola prestazione o di un ciclo di prestazioni, l’eventuale chiamata del lavoratore in giorni non coincidenti con quelli inizialmente comunicati (anche solo per la diversa collocazione temporale degli stessi) comporterà, oltre alle conseguenze di cui sopra, la sanzione per la mancata comunicazione preventiva di cui all’art. 35, comma 3 bis, del D.Lgs. n. 276/2003 (da euro 400 ad euro 2.400).
Ciò premesso va però evidenziato che fino a quando non verranno date specifiche indicazioni in ordine alle modalità di effettuazione della comunicazione e, in particolare, in ordine al sistema di comunicazione mediante SMS (che sembra costituire peraltro la via preferenziale con cui il Legislatore chiede tale adempimento), il personale ispettivo adotterà la massima prudenza e cautela nella identificazione dei fenomeni sanzionatoti in quanto va comunque assicurata la semplificazione degli adempimenti comunicativi proprio in relazione alla specificità dell’istituto che nasce per far fronte a esigenze organizzative e produttive anche contingenti e non sempre preventivabili.

Lavoro accessorio: campo applicativo e regime transitorio
Le modifiche in materia di lavoro accessorio introdotte dalla L. n. 92/2012 hanno comportato, da un lato, una forte semplificazione del quadro normativo e, dall’altro, una limitazione al suo utilizzo.
Dalla formulazione normativa – nell’ambito della quale il Legislatore evidenzia che sono da intendersi accessorie le prestazioni di lavoro “meramente occasionale” – si evince infatti la volontà di riaffermare l’originaria finalità dello strumento, quella cioè di coprire “spazi” non coperti da altri istituti, consentendo di ricondurre nella regolarità possibili attività svolte abitualmente “in nero”.
L’art. 1, comma 32, della riforma sostituisce dunque l’art. 70 del D.Lgs. n. 276/2003, eliminando prima di tutto quella serie di causali soggettive e oggettive che consentivano il ricorso all’istituto, sostituendolo con una disposizione che prevede essenzialmente limiti di carattere economico.
Il nuovo art. 70 del D.Lgs. n. 276/2003 prevede anzitutto che “per prestazioni di lavoro accessorio si intendono attività lavorative di natura meramente occasionale che non danno luogo, con riferimento alla totalità dei committenti, a compensi superiori a 5.000 euro nel corso di un anno solare, annualmente rivalutati sulla base della variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati intercorsa nell’anno precedente”.
Sulla base del primo periodo dell’art. 70 è dunque possibile attivare sempre e comunque lavoro accessorio tenendo conto esclusivamente di un limite di carattere economico, fatto salvo quello che si dirà di seguito.
Tale limite di carattere economico di euro 5.000, se da un lato semplifica il precedente quadro normativo – che impegnava in una verifica relativa alla sussistenza delle causali soggettive e oggettive – dall’altro limita fortemente l’utilizzo dei voucher, dal momento che l’importo è commisurato a quanto ricevuto, nel corso dell’anno solare, dalla “totalità dei committenti”.
Fermo restando il limite complessivo di euro 5.000 nel corso di un anno solare, il Legislatore stabilisce inoltre che “nei confronti dei committenti imprenditori commerciali o professionisti, le attività lavorative (…) possono essere svolte a favore di ciascun singolo committente per compensi non superiori a 2.000 curo, rivalutati annualmente (…)”.
Ai fini del rispetto della nuova disciplina, occorrerà pertanto verificare se il committente è un “imprenditore commerciale o professionista”. In caso positivo la prestazione nei suoi confronti non potrà dar luogo a compensi maggiori di euro 2.000 di voucher. Il limite in questione necessita tuttavia di una precisazione; in particolare è possibile evidenziare che l’espressione “imprenditore commerciale” voglia in realtà intendere qualsiasi soggetto, persona fisica o giuridica, che opera su un determinato mercato, senza che l’aggettivo “commerciale” possa in qualche modo circoscrivere l’ambito settoriale dell’attività di impresa alle attività di intermediazione nella circolazione di beni.
Un secondo limite, anch’esso di carattere oggettivo e fermo restando il tetto dei 5.000 euro, riguarda il settore agricolo. Il nuovo art. 70 stabilisce infatti che il lavoro accessorio in questo specifico ambito si applica:
– alle attività lavorative di natura occasionale rese nell’ambito delle attività agricole di carattere stagionale effettuate da pensionati e da giovani con meno di 25 anni di età se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado, compatibilmente con gli impegni scolastici, ovvero in qualunque periodo dell’anno se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso l’università;
– alle attività agricole svolte a favore di soggetti di cui all’art. 34, comma 6, del D.P.R. n. 633/1972 (trattasi dei “produttori agricoli che nell’anno solare precedente hanno realizzato o, in caso di inizio attività, prevedono realizzare un volume d’affari non superiore a euro 7.000, costituito per almeno due terzi da cessione di prodotti”) che non possono, tuttavia, essere svolte da soggetti iscritti l’anno precederne negli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli.
In sostanza, sarà possibile utilizzare voucher sino a euro 5.000 in agricoltura solo se l’attività è svolta da pensionati o giovani studenti ovvero, a prescindere da chi è il lavoratore accessorio, se l’attività è svolta a favore dei piccoli imprenditori agricoli. È peraltro possibile ritenere che, proprio in ragione della specialità del settore agricolo, non trovi applicazione l’ulteriore limite di euro 2.000 previsto in relazione alle prestazioni rese nei confronti degli imprenditori e professionisti.
Ultima limitazione riguarda la possibilità di ricorrere al lavoro accessorio da parte di un committente pubblico. In tale ipotesi il Legislatore prevede semplicemente che il ricorso all’istituto “è consentito nel rispetto dei vincoli previsti dalla vigente disciplina in materia di contenimento delle spese di personale e, ove previsto, dal patto di stabilità interno”.
Nel rinviare a successivi chiarimenti le ulteriori novità introdotte dalla L. n. 92/2012 in materia di lavoro accessorio, occorre qui evidenziare quanto prevede l’art. 1, comma 33, della Legge in relazione al periodo transitorio. La disposizione stabilisce infatti che “resta fermo l’utilizzo, secondo la previgente disciplina, dei buoni per prestazioni di lavoro accessorio (…), già richiesti alla data di entrata in vigore della presente legge e comunque non oltre il 31 mangio 2013″. In sostanza i buoni già acquistati potranno essere spesi entro il 31 maggio 2013 rispettando la precedente disciplina anche e soprattutto in relazione al campo di applicazione del lavoro accessorio; resta comunque ferma la possibilità di accedere alle consuete procedure di rimborso.

Disciplina collocamento disabili
Nell’ambito della disciplina in materia di collocamento disabili di cui alla L. n. 68/1999 il Legislatore, fra l’altro, modifica il primo periodo dell’art. 4 della stessa Legge che individua i criteri di computo della base occupazione ai fini della determinazione del numero dei soggetti disabili da assumere. In particolare l’art. 4, comma 27 lett. a), della l. n. 92/2012 stabilisce che “agli effetti della determinazione del numero di soggetti disabili da assumere, sono computati di norma tra i dipendenti tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato. Ai medesimi effetti, non sono computabili: i lavoratori occupati ai sensi della presente legge, i soci di cooperative di produzione e lavoro, i dirigenti, i lavoratori assunti con contratto di inserimento, i lavoratori occupati con contratto di somministrazione presso l’utilizzatore, i lavoratori assunti per attività da svolgersi all’estero per la durata di tale attività, i soggetti impegnati in lavori socialmente utili assunti ai sensi dell’articolo 7 del decreto legislativo 28 febbraio 2000, n. 81, i lavoratori a domicilio, i lavoratori che aderiscono al programma di emersione, ai sensi dell’articolo 1, comma 4-bis, della legge 18 ottobre 2001, n. 383, e successive modificazioni. Restano salve le ulteriori esclusioni previste dalle discipline di settore”.
Al riguardo scompaiono dunque, dal novero dei soggetti non computati nell’organico aziendale, i lavoratori “occupati (…) con contratto a tempo determinato di durata non superiore a nove mesi”.
Ne consegue anzitutto che, ai fini della individuazione della base occupazionale, i lavoratori a tempo determinato dovranno essere computati pro quota (ad es. due lavoratori a tempo determinato impiegati anche contestualmente per 6 mesi a tempo pieno vanno calcolati come una sola unità).
Appare inoltre opportuno chiarire che, pur in assenza di una esplicita esclusione, è possibile richiamare quei principi giurisprudenziali relativi al computo del lavoratore a tempo determinato nell’ambito dell’organico aziendale ai diversi fini della individuazione della disciplina applicabile in caso di licenziamenti individuali. La giurisprudenza maggioritaria ritiene infatti che i lavoratori con contratto a termine vadano computati nel numero dei dipendenti qualora il loro inserimento sia indispensabile per la realizzazione del ciclo produttivo; sicché non andrebbero considerati i lavoratori assunti a tempo determinato per ragioni sostitutive.
Ciò premesso va altresì ricordato che risulta in discussione in Parlamento un emendamento alla L. n. 92/2012 che introduce l’esclusione dalla base di computo dei contratti a tempo determinato di durata sino a 6 mesi; si raccomanda pertanto il personale ispettivo di adottare la massima cautela nella verifica del rispetto degli obblighi di assunzione e nell’irrogazione di eventuali sanzioni in attesa della definizione del citato emendamento.

Dimissioni “in bianco”
L’art. 4, commi 16-22, della L. n. 92/2012 introduce un meccanismo volto ad asseverare la genuina volontà del lavoratore di dimettersi o di prestare il proprio consenso nell’ambito di una risoluzione consensuale del rapporto.
Si tratta di una misura di tutela di indubbia importanza in quanto funzionale al contrasto di pratiche volte ad aggirare la disciplina di tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo con ulteriori ripercussioni sotto il profilo assistenziale.
Al di fuori dell’ipotesi di cui all’art. 55, comma 4, del D.Lgs. n. 151/2000 (peraltro sostituito dalla stessa L. n. 92/2012) – concernente particolari tutele prestate alle lavoratrici e ai lavoratori in occasione della nascita o adozione del bambino – si prevede che le dimissioni o la risoluzione consensuale del rapporto siano “sospensivamente condizionate” ad una convalida delle stesse presso la competente Direzione territoriale del lavoro (ovvero presso i Centri per l’impiego o altre sedi individuate dalla contrattazione collettiva) o alla sottoscrizione di una dichiarazione apposta in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro di cui all’art. 21 della L. n. 264/1949.
Al riguardo si esprime l’avviso che la convalida non è richiesta in tutte le ipotesi in cui la cessazione del rapporto di lavoro rientri nell’ambito di procedure di riduzione del personale svolte in una sede qualificata istituzionale o sindacale (ad es. ex artt. 410, 411 e 420 c.p.c.), ciò in quanto tali sedi offrono le stesse garanzie di verifica della genuinità del consenso del lavoratore cui è preordinata la novella normativa.
Per quanto concerne le convalide effettuate presso le Direzioni territoriali del lavoro – diverse da quelle legate alla tutela della genitorialità – va poi evidenziato che le stesse dovranno effettuarsi senza particolari formalità istruttorie, limitandosi i funzionari a raccogliere la genuina manifestazione di volontà del lavoratore a cessare il rapporto di lavoro.
La L. n. 92/2012 stabilisce altresì che, nell’ipotesi in cui la lavoratrice o il lavoratore non proceda alla convalida ovvero alla sottoscrizione, il rapporto di lavoro si intende risolto, per il verificarsi della condizione sospensiva, qualora la lavoratrice o il lavoratore non aderisca, entro 7 giorni dalla ricezione (da intendersi, per evidenti esigenze di certezza, come 7 giorni di calendario), all’invito a presentarsi presso le sedi dove effettuare la stessa convalida ovvero all’invito ad apporre la predetta sottoscrizione, trasmesso dal datore di lavoro, tramite comunicazione scritta.
Peraltro, durante tale periodo, al fine di evitare il realizzarsi della condizione, la lavoratrice o il lavoratore devono revocare le dimissioni; tale revoca, seppur non imposta in forma scritta, è necessario che venga comunque formalizzata al fine di evitare dubbi sulla effettiva volontà e quindi possibili contenziosi.
L’invito al lavoratore ad esplicitare la propria volontà di cessare il rapporto deve essere trasmesso, da parte del datore di lavoro, entro 30 giorni dalla data delle dimissioni e della risoluzione consensuale; in caso contrario le dimissioni si considerano definitivamente prive di effetto.
Si ricorda che tale meccanismo trova applicazione in relazione alle dimissioni presentate a partire dalla data di entrata in vigore della L. n. 92/2012 (18 luglio).

 Ministero del Lavoro – Circolare n. 18 del 2012

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